La prima volta che vidi il violinista sul tetto diretto e interpretato da Moni Ovadia nel 2003 ebbi una folgorazione.
Avevo già apprezzato il film diretto da Norman Jewison – rielaborazione cinematografica della commedia musicale che la triade Stein-Bock-Harnick trasse dal racconto di Aleichem – e mi ero chiesta il perché della scelta di tradurre le liriche nella versione nostrana in yiddish, una lingua di certo non molto nota in Italia. Il musical portato in scena da Moni Ovadia mi aveva fatto comprendere che nessuna lingua può essere una barriera quando l’arte è innalzata all’ennesima potenza.
Siamo in uno “shtetl”, piccola cittadella ebraica dell’Est Europa, nello specifico ad Anatevka, nella Russia zarista dei primi del Novecento e i “pogrom”, le sommosse anti-semite provocate, sono all’ordine del giorno. Tevjie, il lattaio del villaggio, vive seraficamente piccole e grandi difficoltà quotidiane come un violinista sul tetto, in perenne equilibrio grazie alla saggezza della Torah. Di fronte ai dilemmi più forti però Tevjie non segue la rigidità dei precetti, ma l’amore. Discutendo, certo, alla pari con Dio, ma scegliendo sempre la via del cuore. Arrivando persino ad accettare che le tre adorate figlie sposino degli uomini “sbagliati”: un povero sarto (figura disprezzata nel mondo ebraico del tempo), uno studente rivoluzionario e addirittura un russo. Anche davanti all’esilio Tevjie non avrà dubbi e sceglierà la non violenza, allontanandosi dignitosamente dalla sua terra.
La struggente e a tratti comica storia del lattaio Tevye è intrisa di “witz” ebraico che trova la sua naturale emanazione nella forma linguistica utilizzata nelle liriche, solo apparentemente ostica ma invece dolcissima e memore di antiche tradizioni. Il risultato è un ritmo nel ritmo, un’espressività che sottolinea le trascinanti e ora struggenti melodie di Jerry Bock. Moni Ovadia con la sua voce duttile e roca esprime i dubbi da uomo giusto, roboante nei suoi impagabili duetti con Dio (“Padrone dell’Universo! Se è vero che il denaro è una maledizione, ti prego colpiscimi!”), ironico nelle sue considerazioni sulle figlie (“Mia figlia sposerà un povero sarto? E sia, tanto non potrà mai stare peggio!”) o nei suoi divertenti scambi di battute con la moglie Golde e con l’amico-nemico, il macellaio Leizer Wolf.
Nel 2003 la compagnia includeva attori di latitudini diversissime, israeliani, rumeni, ungheresi, russi, zingari e italiani, con un corpo di ballo di cinque danzatori ucraini in cui spiccava il gigantesco Maksin Shamkov. In questa edizione molti talenti italiani e l’inossidabile Moni Ovadia Stage Orchestra. Lee Colbert da nuovamente vita a una Golde irresistibile, Chiara Seminara (Tzeitl), Aurora Cimino (Hodl) e Graziana Lo Brutto (Khave), intense nei ruoli delle tre figlie di Tevjie e il bravissimo Mario Incudine dà vita al rivoluzionario Percik molto potente anche dal punto di vista vocale.
A eccezion fatta per l’eliminazione dei filmati di repertorio che sottolineavano il dramma delle persecuzioni zariste, torna la stessa combinazione vincente luci-scene (rispettivamente di Gigi Saccomandi e di Gianni Carluccio) che propone in forte contrasto cromatico tetti dritti e capovolti, che sembrano usciti da un quadro di Chagall, esattamente come gli splendidi costumi di Elisa Savi.
“Il violinista sul tetto” sarà in scena al Teatro Nuovo di Milano fino al 3 marzo.
