Frutto di un doloroso percorso di allontanamento dai propri credo politici e dal Friuli natale, Ragazzi di vita rappresenta un momento topico della narrazione di Pasolini.
Il suo primo romanzo, datato 1955, narra con lucida poesia e con la sferzante arma del dialetto, il mondo delle borgate romane del secondo dopoguerra, nella fattispecie quello dei giovani rappresentanti del basso proletariato, intrappolati in storie di miseria, criminalità, ricerca di identità.
Massimo Popolizio mette in scena la versione drammaturgica firmata da Emanuele Trevi. La scenografia essenziale di Marco Rossi fa da sfondo ai racconti del branco di borgatari interpretato da diciotto ottimi attori, introdotti dalle parole di un intenso Lino Guanciale, il mediatore tra l’occhio del pubblico e la rappresentazione, una sorta di alter ego pasoliniano. Un telo bianco su cui si allarga inizialmente la proiezione della mappa della capitale, funge da divisore tra i vari racconti che si delineano tra oggetti essenziali ed efficaci movimenti corali. Lo spettacolo si tratteggia tra scritte luminose evocative, con raffinati affreschi caravaggeschi al centro dei quali si snodano le vicende dei protagonisti, persi tra divertimento, gozzoviglie e piccoli crimini. Dal Riccetto, che si tuffa nel Tevere per salvare una rondine, ma che assiste impassibile all’affogamento di Genesio, agli incontri con Nadia la prostituta e l’omosessuale invaghito del Riccetto. E ancora le squallide lotte familiari, il combattimento tra cani, amplificato dall’intervento di Guanciale che regala un intenso recitato de Er cane del Belli. Popolizio realizza un’impresa ardua, sintetizzare una successione infinita di storie tra vari luoghi della capitale in un’unica traccia drammaturgica, ricorrendo spesso all’utilizzo della terza persona, che non rimane una prerogativa dell’osservatore Guanciale – testimone di “una specie de città indigena con un odore così forte de zozza riscaldata che accorava” – ma anche degli stessi protagonisti delle scene rappresentate. Un allestimento di grande impatto visivo nelle scene corali – su tutte il tragico epilogo della morte di Genesio – ma che risulta meno incisivo dal punto di vista emotivo, concentrato com’è su una progressione didascalica, che ne mette un po’ in ombra la potenza drammaturgica. Una raffinata regia “ronconiana”, premiata tre volte con l’Ubu, il Premio della Critica e il Premio Le Maschere (anche come miglior spettacolo).
