Utøya, ovvero una ferita mai rimarginata al cuore dell’umanità, ancora oggi pulsante, ma praticamente dimenticata, quasi per un tacito, vile accordo collettivo. Il 22 luglio 2011 l’isola norvegese divenne scenario di una carneficina operata da un estremista di destra, Anders Breivik, che uccise 69 ragazzi di uno storico campeggio di giovani socialdemocratici, dopo aver fatto altre 8 vittime con un’autobomba a Oslo.
Da questa tragedia nasce il saggio Il silenzio sugli innocenti, di Luca Mariani sul quale si basa il testo di Edoardo Erba, Utøya – co-produzione ATIR Teatro Ringhiera, Teatro Metastasio di Prato – tornato in scena dal 9 al 14 gennaio a Milano al Teatro Filodrammatici, con la regia di Serena Sinigaglia e l’interpretazione Mattia Fabris e Arianna Scommegna. In una scena spettrale (per la quale Maria Spazzi ha vinto il Premio Hystrio-Altre Muse 2017) fatta di tronchi d’albero e frammenti di specchi, funerei riflessi di umanità spezzate, sei esistenze, che testimoniano ognuna a proprio modo la carneficina. Una coppia alla deriva, lui un professore universitario che ha costretto la figlia ad andare al campeggio di Utoya per “scuoterla” dalle frivolezze adolescenziali; due contadini vicini di fattoria di Breivik, fratello e sorella, in cui lei, presenza materna e ingombrante, rivendica la superiorità della razza norvegese; due poliziotti di una piccola stazione vicina a Utøya, uomo e donna, in cui la parte femminile, apparentemente debole e oggetto di pesanti attenzioni, rivela la sua forza interiore, cercando inutilmente di osteggiare la vigliaccheria del collega, che si rifiuta di intervenire in aiuto delle vittime. Tre modi di reagire alla violenza: lo sgomento che scuote la quotidianità della vita di coppia, la paura di chi è ancora ancorato a certezze ancestrali e reazionarie, la vigliaccheria che si rifiuta di credere nella forza individuale per il bene comune. Un caleidoscopio di emozioni, che i protagonisti Mattia Fabris e Arianna Scommegna gestiscono con una prova magistrale, che riflette le nostre stesse esistenze alle prese con l’inutilità e la banalità del male. Una regia cruda ed essenziale quella di Serena Sinigaglia, che dipinge il quadro di un male vicino, terribilmente vicino, che ha il volto di un vicino di casa, dalle fattezze rassicuranti, così simili a noi, parla la nostra stessa lingua. Un male oscuro, risvegliatosi all’interno di una società cosiddetta “civile” con una potenza terrificante, inverosimile e per questo sotterrata in un angolo dimenticato della storia dell’umanità.
La foto è di Serena Serrani