Uno dei più grandi classici del teatro del novecento e capolavoro della maturità di Ibsen, Il costruttore Solness rappresenta un terreno teatrale molto insidioso, per il suo continuo oscillare tra naturalismo e simbolismo carico di toni psico-analitici. Alessandro Serra porta in scena un costruttore Solness – di cui ha anche curato, oltre alla regia, adattamento, luci, scene e costumi – di grande efficacia, grazie a un allestimento che è parte stessa della sua concezione drammaturgica. Un’imponente macchina scenica, una sorta di agghiacciante mostro metallico, che si fa sempre più claustrofobico e sembra inghiottire gradualmente il protagonista con echi sonori sinistri, in un ambiente cupo e appena squarciato dalle luci. Ai protagonisti si addice una recitazione implosa, tutta in sottrazione a sottolineare l’alienazione e il carattere dei personaggi. Umberto Orsini tratteggia con glaciale precisione Solness, un uomo che è nella sua stessa essenza un megalomane, un paranoico del controllo, che ha comunque coscienza delle sue colpe e le ammette senza lasciar trapelare alcuna emozione. Vive infatti nella convinzione di aver raggiunto il successo nella professione di costruttore di “case per gli uomini”, grazie a una sorta di piano divino, il sacrificio dei figli di cui però incolpa con una crudeltà assoluta la moglie Alina (molto brava Renata Palminiello), una donna in perenne auto espiazione e votata al “dovere” e a cui è ormai legata da un legame anaffettivo e distorto. La forza di Solness è alimentata da “un’angoscia continua e insopportabile” per l’avvento imminente di una gioventù che un giorno picchierà alla sua porta per soppiantarlo. Come il suo aiutante Ragnar (Salvo Drago), un talentuoso architetto a cui ha ostacolato la carriera e a cui nega la possibilità di mettersi in luce con il padre Knut (Flavio Bonacci), un tempo suo mentore e ora gravemente malato. E Solness arriva al punto di legarsi in modo simbiotico a Kaja (Chiara Degani), fidanzata di Ragnar e sua segretaria, per manipolarlo. Finché la gioventù bussa alla sua porta, in un modo diverso dal previsto: nelle fattezza della bella Hilde (un’intensa Lucia Lavia) che gli ricorda una dimenticata promessa d’amore di dieci anni prima, che innalza implicitamente su di lui un presunto sospetto di pedofilia. La possibilità di riscatto tramite Hilde, che vede invece lui un’immagine di grandezza ed eroismo, non sarà altro che un miraggio, che lo porterà a una fine ingloriosa, una drammatica caduta da una vetta vera e metaforica.
Oltre a una regia altamente espressiva, è interessante il lavoro fatto sul testo da parte di Serra, che snellisce parte dei dialoghi soprattutto nell’epilogo, aggiungendo alcuni concitati movimenti scenici, ma in cui si ritrova tutto Ibsen e forse ancora di più. La lotta di classe, la tragedia del tempo che incombe nel contrasto tra vecchio e nuovo, il simbolismo di una sessualità inibita sotto forma di relazioni umane distorte come quella tra vittima e carnefice. Perché come afferma Serra “Se il protagonista è un costruttore, Ibsen è un perfetto architetto in grado di edificare una casa, dall’aspetto perfettamente borghese e ordinario, nelle cui intercapedini si celano principesse dimenticate, demoni e assistenti magici al servizio del padrone”.
Il costruttore Solness, produzione Compagnia Orsini e Teatro Stabile dell’Umbria, va in scena al Piccolo Teatro Grassi fino al 12 maggio
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